Deleuze: l’immagine-movimento

L’Immagine-movimento e le sue varietà

 

La teoria del cinema di Gilles Deleuze (1925-1995), sviluppata nei due tomi L’immagine-movimento[1] e L’immagine-tempo[2], risulta impossibile da comprendere se non si fa anzitutto riferimento allo statuto che lo stesso filosofo francese assegna alla produzione teorica e concettuale: essa non è qualcosa che preesiste al suo oggetto, non è qualcosa che fa se stessa, ma è bensì una pratica dei concetti e va giudicata in funzione delle altre pratiche con le quali interferisce. Una teoria del cinema allora sarà “una teoria che non è “sul” cinema, ma sui concetti che il cinema suscita, che sono pratiche effettive ed esistenti quanto lo stesso cinema[…] Il cinema stesso è una nuova pratica delle immagini e la filosofia deve fare la teoria in quanto pratica concettuale” [3] .

Partendo da questo assunto (che in realtà chiude la monumentale opera deleuziana) si evidenzia la necessità di Deleuze di affrontare l’intero discorso partendo da una base che è squisitamente filosofica-concettuale. In tal senso Deleuze mette in atto una ripresa dell’impianto concettuale elaborato da Henri Bergson (1859-1941) in  Materia e memoria[4] e L’evoluzione creatrice[5], che diviene, in un certo senso anche “ironicamente” (data la certificata avversione del filosofo parigino nei confronti della settima arte) fondamentale strumento d’analisi del cinema.

Bergson, filosofo generalmente noto  per il concetto di “slancio vitale”, è un autore al quale Deleuze già nel ‘68 aveva dedicato un’importante scritto, “Il bergsonismo e altri saggi”, che aveva avuto il merito di riportare in auge un pensatore che , dopo un periodo di eccezionale successo, culminato con l’assegnazione del premio nobel per la letteratura nel ’25,  era caduto nel più assoluto anonimato.

Ne “L’Immagine-movimento” viene  principalmente affrontato l’impianto concettuale esposto nel primo capitolo di Materia e Memoria, nel quale trovava spazio la trattazione del problema dell’immagine, del suo statuto e del suo rapporto col concetto di movimento. L’analisi delle tesi che Bergson espone in questa rivoluzionaria opera, rappresentano allora il presupposto filosofico ineludibile sul quale si fonda l’intera opera deleuziana sul cinema.

L’articolazione di quest’analisi, la rielaborazione da parte di Deleuze dei concetti di “immagine” e “movimento” sviluppati da Bergson, è strutturata attraverso due fondamentali commenti.

Nel “primo commento” , viene affrontato il concetto di “movimento” in seno alla filosofia bergsoniana, con le sue tre tesi.

La prima tesi concerne l’impossibilità di identificare il movimento con degli istanti immobili , con la suddivisione del movimento in “pose” : da un lato infatti il movimento si produrrà sempre nello spazio tra le due pose, nello iato che si apre tra due istanti immobili; dall’altro si avrà un bel dividere e suddividere il tempo, il movimento si farà sempre in seno ad una durata concreta. Il movimento allora non potrà mai essere identificato con la “scrittura” che se ne può fare, esso sarà e si formerà sempre al di là di ogni tentativo di bloccarlo in una forma cristallizzata.

E’ in questo momento che Bergson elabora la sua avversione verso il cinema, che si struttura, secondo filosofo di Materia e memoria, attraverso due dati complementari: esso, in primo luogo, estrae e isola delle sezioni istantanee e immobili del movimento (ossia le immagini); successivamente le “fa muovere” accompagnandole con  un movimento impersonale e astratto “che è nella macchina“[6] , ed è dunque falso e “illusorio”.

 

 

La seconda tesi sul movimento riguarda allora , per l’accoppiata costituita da Deleuze-Bergson, la doppia possibilità d’errore in cui si incappa quando si tenta di pensare o ricreare il movimento: se da un lato abbiamo la suddivisione del movimento in pose immobili (che sono dunque istanti privilegiati che trasmetterebbero il movimento), dall’altro abbiamo un nuovo meccanismo, che è quello della scienza cosiddetta “moderna”, che non riconduce più il movimento a degli istanti privilegiati, bensì a degli “istanti qualsiasi”e identifica il movimento come una “sezione immobile della durata”.

Ora, secondo Bergson, il cinema apparterrebbe in pieno a questa categoria (continuando a restituire una pura illusione di movimento), che a questo punto diventa, per Deleuze (sulla scia di Bergson) “il sistema che riproduce il movimento riportandolo all’istante qualsiasi” [7], e anche se il cinema, per sua natura , si “nutre” di istanti privilegiati, che esalta per caricarli di senso, essi sono caratterizzati da uno statuto completamente diverso:  “non hanno più nulla a che vedere con le pose, se sono istanti privilegiati, lo sono a titolo di punti notevoli che appartengono al movimento” [8], l’istante qualsiasi infatti può essere ordinario “oppure” notevole.

Ora, secondo la prima tesi sul movimento, anche il meccanismo che si mette in opera nel cinema (e nelle tecniche moderne più in generale) ci consegna una falsa idea del movimento, un’illusione: in entrambi i casi infatti si perde il movimento come “durata concreta”, poiché ci si dà un tutto, si suppone che “tutto è dato”, mentre il movimento si fa solo se il tutto non è dato né può essere dato. In entrambi i casi il movimento si produce in seno ad una “sezione” che è separata, isolata dal tutto inteso come “variazione universale”, il movimento che si realizza è dunque falso in virtù del suo “isolamento” dalla “durata”. Riportare il movimento a delle semplici “pose immobili” oppure estrarre da esso delle “sezioni immobili della durata” dà luogo allo stesso effetto: perdere il movimento “reale” in favore di una mera rappresentazione (falsificante) del movimento stesso.

Ma è a questo punto che Bergson mette in opera uno scavalcamento della prima tesi, identificando e indicando il movimento come una “sezione mobile della durata” cioè del Tutto.

Il “movimento” non è più solo cambiamento, ma “espressione” di un cambiamento all’interno della durata (che viene a coincidere con il Tutto). Ciò che Bergson scopre sono le “qualità”, che si accompagnano alla mera traslazione nello spazio:

 

“il nostro torto è di credere che le cose che si muovono, sono elementi qualsiasi estranei alle qualità, ma le qualità stesse sono pure vibrazioni che cambiano nel tempo stesso in cui si muovono gli elementi pretesi” [9]

 

A mutare cioè non sono solo le cose in rapporto tra di loro; vi è un piano ulteriore, che è quello del Tutto, della durata, della relazione, che è in un certo senso estraneo agli oggetti in movimento, che concerne le qualità che si trasformano,e che , trasformandosi, modificano il Tutto. Questa mutazione costante, questo trasformarsi costante delle qualità, è per l’appunto l’effetto ( o l’espresso) del movimento,  che però non è altro che un “taglio” in seno al mutare perenne costitutivo della “durata”, e per estensione , del Tutto.

Ma cosa sono il “tutto” e la “durata”? Nelle parole di Deleuze:

 

Se bisognasse definire il tutto, lo si definirebbe attraverso la Relazione. E la relazione non è mai una proprietà degli oggetti, è sempre estranea ai suoi termini. Grazie al movimento nello spazio gli oggetti cambiano le loro posizioni. Ma, attraverso le relazioni, il tutto si trasforma o cambia di qualità. Della durata stessa, o del tempo, possiamo dire che è il tutto delle relazioni.[10]

 

Il movimento allora si fa sempre in due diverse direzioni, si produce sempre su due piani che sono distinti: da un lato abbiamo gli oggetti o le parti, che sono in movimento in seno ad uno spazio, che cambiano di posto; dall’altro abbiamo un tutto che non cessa mai di mutare e di trasformarsi. Il cinema allora, nella prospettiva di Deleuze, che questa volta si sgancia da Bergson, sarà lo strumento decisivo a rendere conto di questa “doppia articolazione” del movimento, che da un lato pone la traslazione nello spazio e dall’altro l’espressività del cambiamento: per dimostrare questa tesi però c’è bisogno di uno sviluppo ulteriore, che renda conto dello statuto ontologico dell’immagine-cinematografica in rapporto alla realtà.

Perciò, se con questo primo commento all’opera bergsoniana Deleuze fissava in maniera chiara quello che è lo statuto e la funzione del “movimento”, è con il secondo commento (tutto incentrato sul primo capitolo di Materia e memoria) che getta le basi concettuali dell’architettura dell’intera sua opera sul cinema.

Il concetto fondamentale che Deleuze articola è quello di “immagine-movimento”:

 

chiamiamo immagine l’insieme di ciò che appare. Non si può nemmeno dire che un immagine agisca su un’altra o reagisca a un’altra. Non c’è mobile che si distingua dal movimento eseguito, non c’è mosso che si distingua dal movimento ricevuto. Tutte le cose, cioè tutte le immagini si confondono con le loro azioni e razioni: è la variazione universale [11].

 

Ora, questa identità tra immagine e movimento, questa “immagine-movimento”, costituisce una sorta di piano d’immanenza, un in-sé dell’immagine, che è l’insieme infinito di tutte le immagini. Esso è al contempo l’insieme di tutte le immagini e la variazione universale che le anima, che è da esso inscindibile.

Questo insieme, questo tutto dell’immagine, dove tutto reagisce su tutto è ciò che Deleuze chiama la “materia”, ossia la realtà nella sua matericità, che non si distingue dall’immagine-movimento, anzi “l’immagine-movimento e la materia-flusso sono rigorosamente la stessa cosa”  [12].

L’immagine-movimento e la realtà, quindi, sono la stessa e medesima cosa, proprio perché la realtà null’altro è se non immagine.Tra l’immagine-movimento della “realtà” e l’immagine-movimento “cinematografica”

 

la differenza sarà piuttosto una distinzione di gradi di realtà nello stesso dominio del reale, una distinzione di gradi (e di aspetti) del reale: il reale della “materia-immagine” e il reale dell’immagine cinematografica. In altri termini, possiamo dire che la materia è il “piano d’immanenza” dell’immagine-movimento meno il cinema, e che il cinema è l’immagine-movimento meno la materia, quindi uno dei “gradi della realtà” e non un’illusione che è ritenuta rimpiazzare il reale.[13]

 

Il cinema e la realtà allora, secondo Deleuze ispirato da Bergson, sono la stessa e medesima cosa; se una differenza riscontrabile esiste, essa non è di natura ma bensì di grado. Ci troviamo dunque di fronte a due diversi gradi della realtà, dove il cinema non è più una “falsificazione”, ma una presentazione diretta dell’immagine-movimento in sé.

 

 

A questo punto entra in gioco un’altra riflessione decisiva del pensiero bergsoniano, che consiste nello scavalcamento della posizione di Edmund Husserl (1859-1938) in merito allo statuto della “coscienza”: se per il fenomenologo tedesco la coscienza è “sempre coscienza di qualche cosa” per Bergson la coscienza “è qualche cosa”. La coscienza dunque non rappresenta più un fascio luminoso che illumina il mondo,  è piuttosto un taglio in seno alla luce del mondo: sarà il piano d’immanenza, l’immagine in-sé, ad essere Luce, e la coscienza un taglio di questa luce: “sono le cose ad essere luminose di per se stesse, senza nulla che le rischiari”[14] e la coscienza sarà solamente quell’opacità senza la quale la luce non sarebbe mai stata rivelata.

E’ proprio questo il momento nel quale la riflessione deleuziana, sulla scorta del pensiero di Bergson, compie il salto decisivo ai fini della concettualizzazione del cinema: in un certo punto del piano d’immanenza appare un intervallo, nel continuo reagire delle immagini le une sulle altre, ad un certo punto la luce urta contro un ostacolo, un’opacità, una coscienza.

Gli esseri viventi si lasceranno attraversare solo dalle azioni che gli sono indifferenti; tutte le altre, isolate, diventeranno “Percezione”, la coscienza compie dunque un’operazione di selezione, mettendo in atto una vera e proprio “inquadratura”.

Se da un lato accade questo dall’altro le reazioni prodotte non si legheranno immediatamente alla percezione subita: in virtù dell’intervallo, esse saranno il frutto di un’elaborazione che prescinde dall’eccitazione derivante dalla percezione subita, non saranno “reazioni” ma bensì “azioni”: la coscienza costituisce in pratica un “centro d’indeterminazione” in seno al piano d’immanenza.

Ne deriva l’esistenza di un doppio regime dell’immagine: da un lato avremo un sistema che varia per se stesso in tutte le sue parti (il piano d’immanenza) dall’altro avremo un sistema in cui tutte le immagini variano in relazione ad una sola (il centro d’indeterminazione) che su una faccia riceve le immagini e su di un’altra reagisce: è proprio in questo doppio orizzonte che il cinema, secondo Deleuze, si muove e si produce.

E’ solo a partire da queste premesse concettuali che può svilupparsi la tassonomia delle immagini che lo stesso filosofo francese tenta di compiere nella sua opera: così, quando il piano d’immanenza si rapporta ad un centro d’indeterminazione ciò che avremo sarà la cosiddetta “immagine-percezione”. E in conseguenza di questa, e del curvarsi del mondo intorno al centro d’indeterminazione,  ci troveremo di colpo nel regime dell’ “immagine-azione” ossia nell’ambito nel quale una coscienza, ricevuto uno stimolo, elabora e produce una risposta ad esso.

All’interno di quest’intervallo, di questo scarto tra percezione e azione, troveremo ancora altri tipi d’immagine: l’immagine-affezione, “espressione delle qualità affettive in uno “spazio qualsiasi” determinato da un quadro che interrompe lo scorrimento orizzontale del tempo”[15] ;  l’immagine-pulsione, dove “l’ambiente è restituito al suo “mondo originario”e l’azione si trasforma in energia di distruzione”[16]

Tra tute queste diverse modalità dell’attualizzarsi dell’immagine-movimento, che andremo a analizzare in seguito,sarà l’immagine-azione a giocare un ruolo centrale, perlomeno all’interno di tutta quella cinematografia che fino alla seconda guerra mondiale può essere identificata come dominante, ossia quella “hollywoodiana” : sarà questo tipo di immagine infatti, con le sue due varietà (la grande e piccola forma) e con la sua crisi, a determinare lo svilupparsi di tutto un certo modo di fare cinema (che Deleuze ritiene identificativo sostanzialmente  di tutta la storia del cinema antecedente il neorealismo) che, producendosi all’interno dello schema sensorio-motorio dell’azione/reazione, dà luogo a quella che viene chiamata “narrazione organica”: narrazione che vale sempre rispetto ad un qualcosa che le è estraneo, che essa si propone di descrivere e raccontare.

All’interno di questo schema ci troveremo spesso di fronte ad un fluire razionale dell’azione, proprio perché ciò che più interessa sarà il passaggio dalla situazione all’azione e viceversa, e sarà proprio la messa in discussione di questo modo di fare cinema da parte del neorealismo a determinare quello scarto che ci condurrà dall’immagine-movimento all’immagine-tempo.

 

L’Immagine-percezione

 

S’è visto come secondo Deleuze, ispirato da Bergson, la natura di un’immagine percezione possa differenziarsi: essa può essere sia “oggettiva” (riferita al piano d’immanenza) che “soggettiva”  (riferita ad una coscienza, ad un centro d’indeterminazione).

Dal punto di vista cinematografico, questa diversità identificata da Bergson, si ripropone in maniera identica: l’immagine-percezione può sempre riferirsi o  ad una visione esterna ed estranea delle cose, che in tal caso la definiremo “oggettiva”, oppure può essere la visione di uno dei personaggi che appartengono  alla storia e al film, in tal caso essa sarà un’immagine “soggettiva”.

L’assegnabilità di questo statuto è però costantemente in bilico, poiché ogni immagine che in un dato momento identifichiamo come “oggettiva” , può esser  ricondotta nell’inquadratura immediatamente successiva ad una visione che è interna al film,trasformandosi in tal caso immediatamente in immagine  “soggettiva” :  “Pandora, di Lewin, comincia con un piano d’insieme di una spiaggia, dove un gruppo di persone si dirigono verso un punto; la spiaggia è vista  da lontano, con un cannocchiale. Ma veniamo prestissimo a sapere che il cannocchiale è usato da qualcuno, che è interno alla storia, e che dunque fa  pienamente parte dell’insieme considerato” [17]. Specularmente, un ‘immagine che in un primo momento assegniamo per intuizione ad uno dei personaggi coinvolti, e che quindi identifichiamo come una  “soggettiva”, può rivelarsi invece essere immagine “oggettiva”, non appartenente a nessuno dei personaggi.  Dobbiamo allora anzitutto constatare che il “soggettivo” e l'”oggettivo” al cinema non fanno altro che scambiarsi di posto e di natura, confondendosi e  rilanciandosi costantemente, nel potenzialmente infinito gioco del “guardante-guardato”, senza però rivelarsi utili ai fini di una classificazione precisa.

Bisognerà dunque sforzarsi di rinvenire, nel cinema, uno statuto dell’immagine-percezione che gli sia specifico, e che riferisca di questo continuo scambio  tra due dimensioni: un’immagine che non sia nè oggettiva nè soggettiva, ma bensì semi-oggettiva: che non si confonda con il personaggio, ma non ne sia  neanche al di fuori, che riferisca cioè del rapporto sempre ambiguo e cangiante tra “visione del personaggio” e “visione della macchina”.

Ciò che verrà dunque a costituire lo “specifico” dell’immagine-percezione cinematografica sarà dunque questo caratterstico “esser-con” della macchina da  presa coi personaggi, “una specie di Mit-Sein propriamente cinematografico” [18]

Deleuze si serve, al fine di individuare lo statuto necessario a quest’immagine, di un’analogia  linguistica utilizzata da Pier Paolo Pasolini (1922-1975).

Secondo le tesi espresse dal cineasta italiano in Empirismo eretico[19], possiamo anzitutto identificare come “discorso diretto” quello messo in opera da un’immagine-percezione soggettiva (l’immagine  è frutto della visione di un personaggio), e come indiretto quello espresso da un’immagine-percezione oggettiva (l’immagine è frutto di una visione estranea  alle parti dell’insieme considerato). Pasolini riteneva che l’essenziale dell’immagine cinematografica però non fosse né di natura soggettiva né oggettiva, che  non appartenesse dunque al discorso diretto, e tantomeno quello indiretto, ma bensì al “discorso libero indiretto”.

Questo viene descritto da Deleuze come “una forma particolarmente importante in Italiano e in Russo che pone ai linguisti e ai grammatici molti problemi:  consiste in un’enunciazione presa in un enunciato che dipende a sua volta da un’altra enunciazione, ad esempio: “Lei raccoglie la propria energia: soffrirà  la tortura piuttosto che perdere la propria verginità”[20] .

Si vede come, in seno all’esempio (che Deleuze prende in prestito da Bachtin) non vi è una semplice mescolanza di due soggetti d’enuncizione, si tratta  piuttosto di un “concatenamento enunciativo, che opera allo stesso tempo due atti si soggettivazione inseparabili, uno che costituisce un personaggio alla  prima persona, l’altro che assiste alla sua nascita e lo mette in scena”[21].

Questa separazione dei due soggetti, che viene definita “Mimesis”[22] da Pasolini, è propriamente quanto si ritrova in seno all’inquadratura: un personaggio  viene inquadrato, agisce sullo schermo, e vede il mondo e le cose secondo il suo punto di vista, ma contemporaneamente a questa visione, la cinepresa ce ne  offre un’altra , che è propiamente la “sua”, ossia la ripresa istantanea che la cinepresa fa dell’insieme, cioè del personaggio e della sua visione, che  vengono letteralmente ri-presi da un’altro punto di vista, che è quello della macchina da presa: si vede come anche qui si ripropone lo sdoppiamento dei  soggetti d’enunciazione che prima avevamo visto in opera nella frase che Deleuze aveva preso a prestito da Bachtin: anche qui, all’interno dell’inquadratura  cinematografica, vi sono due soggetti (il personaggio e la macchina da presa) che offrono letteralmente due visioni del mondo e sul mondo, autoinglobandosi  vicendevolmente.

A questo punto non si tratta più di individuare il soggettivo o l’oggettivo in seno all’immagine, essi vengono superati verso una “forma pura che si erge  come visione autonoma del contenuto[…] correlazione tra un’immagine-percezione e una coscienza-cinepresa che la modifica” [23]

E’ chiaro che non ci troviamo davanti ad un meccanismo che è sempre in opera in tutti i film, esso è piuttosto il segno di un cinema molto particolare, un  cinema che è pervenuto a quello che è lo statuto più propriamente cinematografico dell’immagine-percezione: un cinema che ha acquisito il gusto di far  sentire la cinepresa.

La macchina da presa non sarà più un qualcosa che deve scomparire in favore dell’immagine e dell’imitazione della realtà,anzi, quanto più essa sarà  presente,tanto più il “discorso libero indiretto” acquisirà forza.

Pasolini analizza e cita un certo numero di procedimenti che testimoniano di questo  sentire propriamente cinematografico, ma il nodo centrale della questione è propriamente questa “presenza”, questo esserci della macchina da presa che  risolve il dualismo oggettivo-soggettivo in una forma estetica superiore, che diviene tratto distintivo del mezzo cinematografico. Secondo Mario Pezzella:

 

ciò che importa è la modalità con cui ogni immagine giunge ad esprimere il punto di vista e la prospettiva psichica del protagonista, dietro cui si cela in modo non mascherato quella del regista: più che l’azione narrativa, conta il tono, la deformazione, la costellazione simbolica entro cui il visibile appare al suo sguardo [24].

 

A fianco di questa interpretazione della questione “soggettivo-oggettivo” dell’immagine-percezione ve ne si può trovare un’altra.

Infatti, se invece di partire da una concezione “cinematografica” di “soggettivo” e “oggettivo” , partissimo da una definizione “reale” dei due poli, allora  lo scenario verrebbe radicalmente a trasformarsi. Il Bergsonismo proponeva una definizione di questo tipo: “sarà soggettiva una percezione in cui le immagini  variano in rapporto ad un’immagine centrale e privilegiata;sarà oggettiva una percezione, così come essa è nelle cose, in cui tutte le immagini variano le  une in rapporto alle altre, su tutte le loro facce e in tutte le loro parti” [25].

Sussumendo questo punto di vista, le ambiguità che avevamo precedentemente riscontrato vengono a cadere, in favore di una maggiore chiarezza e leggibilità  dell’immagine, al meno per quanto concerneva la distinzione che se ne poteva fare, tra soggettiva e oggettiva: sarà soggettiva quell’immagine-percezione che  varia in relazione ad un centro (un delirio, un’allucinazione) mentre definiremo oggettiva quell’immagine-percezione in seno alla quale si produce una  variazione che attraversa tutte le sue parti, indistintamente .

Questo secondo punto, questo sistema della variazione universale, sarebbe la realizzazione cinematografica effettiva di quanto Bergson aveva teorizzato: un  piano d’immanenza delle immagini, dove ognuna reagisce sull’altra. E proprio questo sistema della variazione universale è il tratto distintivo della ricerca  cinematografica di  Dziga Vertov

(1896-1954) e della sua  teoria del “Kinoglaz”.

Il nodo centrale della teoria e della ricerca vertoviana consisteva per l’appunto nel superamento della percezione umana,in seno alla quale tutte le  immagini variano in rapporto ad una sola, in favore di una percezione che rendesse conto della variazione universale delle immagini: in sostanza, la ricerca  di una percezione che non fosse più nell’occhio, ma bensì nella materia.

[26]

 

Appare evidente che , qualora si considerasse come elemento costitutivo del cinema la sola macchina da presa, allora quella della variazione universale delle  immagini sarebbe una percezione alla quale sarebbe impossibile pervenire attraverso il cinema. Ma il punto è che il cinema non è semplicemente la ripresa che  esso fa della realtà esterna,anzi, esso è anche e soprattutto montaggio. E “ciò che il montaggio fa, secondo Vertov, è per l’appunto quello di riportare la  percezione nelle cose, mettere la percezione nella materia, in modo tale che qualsiasi punto nello spazio percepisca da sè tutti i punti sui quali agisce o  che agiscono su di lui, per quanto lontano possano estendersi queste azioni e queste reazioni”[27]

In questo contesto anche “l’intervallo” cambierà di statuto: esso infatti non costituirà più lo spazio in seno al quale si costituisce quel centro d’indeterminazione che era la coscienza, non sarà più  il tempo d’attesa tra l’azione e la reazione, ma costituirà bensì il puro concatenamento macchinico tra un’azione e la sua reazione, indipendentemente da quale sia la loro distanza nello spazio e nel tempo.

La percezione, in ogni caso, rappresenta solamente il primo dei momenti nei quali il “centro d’indeterminazione”, la coscienza, è presa. Il passaggio delle immagini “attraverso” la coscienza genera automaticamente un reazione, un’immagine-azione.

Ma nell’intervallo tra  percezione e azione, nello iato che si genera tra questi due momenti, c’è ancora qualcosa da osservare e investigare.

 

 

L’Immagine-affezione

 

“Una specie di tendenza motrice su un nervo sensibile”[28] , ossia “uno sforzo motorio su una lastra ricettiva immobilizzata”[29] :  ecco come viene  riassunta da Bergson prima e da Deleuze poi l’essenza dell’immagine-affezione.

In seno al “centro d’indeterminazione”, tra un movimento ricevuto e un movimento eseguito, non vi è semplicemente un intervallo, pausa: all’interno di quest’intervallo v’è sempre qualcosa che si produce, un’istante nel quale il movimento cessa d’essere “di traslazione” per divenire “espressivo”; non vi è  più movimento “reale” ma bensì un tendenza, una semplice qualità espressa da un elemento immobile. Il luogo privilegiato allora dell’espressione dell’affetto  sarà il volto: coi suoi organi ricettori immobili, esso veicola su di se tutte quelle tendenze d’espressione che rimangono invece inespresse nel resto del  corpo, attraverso i suoi micromovimenti restituisce un quadro espressivo che informa il corpo intero di un‘affettività che rimarrebbe altrimenti inespressa.

Tant’è che, per Deleuze: “L’immagine-affezione è il primo piano, e il primo piano è il volto”[30].Il primo piano perciò non è semplicemente un “tipo  d’inquadratura” fra le altre, ma è propriamente un modo di trattare la materia, che ne da un tipo di lettura che ne mette in risalto “l’affetto”.

L’affetto, concetto chiave della filosofia deleuziana, di ispirazione spinozista, consiste nell’esplicitarsi di una qualità o una potenza su di un elemento immobile, consiste in altri termini, di “una serie di micromovimenti su una lastra nervosa  immobilizzata”[31] : una parte del corpo ha perso parte della sua motricità in favore di una ricettività che da luogo esclusivamente a dei  micromovimenti, piccole variazioni che non si fanno veicolo di un’informazione ma piuttosto esprimono una tendenza , l’affetto allora potrà essere definito come “espressione di una tendenza”.Si vede come la definizione dell’affetto viene a coincidere completamente con quella che se ne può fare del volto umano: il volto è propriamente quella parte  del corpo che “ha sacrificato parte della sua motricità, e che raccoglie o esprime apertamente ogni specie di piccoli movimenti locali che il resto del corpo  tiene normalmente nascosti”[32] .

Non possiamo dunque dire del volto che esso “è in primo piano” poiché, come si vede, il primo piano è di per sé il volto, poiché esso rappresenta in tutto e  per tutto quel gioco tra lastra immobile e micromovimenti espressivi, che dà luogo al presentificarsi dell’affetto, che è a sua volta l’essenza stessa del  “primo piano”. Avremo dunque due elementi da cui la potenza dell’affetto può svilupparsi: da un lato la “lastra ricettiva immobile”, ossia il volto come “piano” sul quale si attualizza un’espressione, e dall’altro i “micromovimenti” che animano questa lastra, le espressioni che sul volto si attualizzano. Possiamo così individuare due poli, due tendenze attraverso le quali il volto può essere rappresentato, o inquadrato: da un lato  abbiamo il volto colto nell’insieme della sua armonia, linea avviluppante che ne raccoglie tutte le sue componenti: sarà una “superficie di voltificazione”; dall’altro lato abbiamo invece una sommatoria di tratti dispersi e frammentari, un volto sempre parziale e spezzettato, colto nell’espressione di micromovimenti che lo agitano e lo trasformano, segnato da linee di demarcazione che sembrano forzare una materia ribelle verso  un contorno che diviene impreciso, che chiamiamo “tratti di volteità”.

E’ chiaro che queste due tipologie del volto rispondono a questioni diverse; il volto inteso come “superficie di voltificazione” risponde ad un’esigenza  riflessiva, è un volto “riflettente”: così come in moltissimi primi piani di David Wark Griffith (1875-1948) esso assume il compito di esprimere una qualità comune a tutta una  serie di elementi diversi. Altra questione è quella legata al volto rappresentato mediante “tratti di volteità”: esso, nella sua frammentarietà, nella sua  dispersione, dà luogo ad un meccanismo che è tutto incentrato sull’accrescersi dell’intensità al fine di passare da una qualità a un’altra: così come nella  “Linea Generale” di Sergej Michajlovic Ejzenstejn (1898-1948) dove “il bel volto del Pope si dissolve a tutto vantaggio di uno sguardo subdolo che si concatena con l’occipite stretto e con  il grasso lobo dell’orecchio: avviene come se dei tratti di volteità sfuggissero al contorno, e testimoniassero il presentimento del prete”[33].

Deleuze aveva già dedicato pagine importanti alla questione del volto in un’altra opera, Mille piani[34], scritta in collaborazione con Felix Guattari (1930-1992), filosofo e psicanalista francese col quale aveva già dato alle stampe il celebre L’anti-Edipo[35]. Nel capitolo dedicato alla questione della “viseità” (Anno zero, viseità) , Deleuze e Guattari individuano nel “volto” il nodo centrale di ogni significazione possibile, la base a partire dalla quale ogni significazione può avvenire, l’operazione attraverso la quale determinati elementi si strutturano in maniera significativa, tant’è che la viseificazione (che nei tomi sul cinema diverrà “voltificazione”, al pari di viseità, che si trasformerà in “volteità”) il “divenire-volto”, non è qualcosa che riguarda solo la “testa”: essa è, in quanto processo determinato dall’installarsi della macchina astratta “muro bianco-buco nero” (che infatti si ritrova all’opera anche nella linguistica) , qualcosa che può attivarsi su qualsiasi oggetto:

 

Anche un oggetto d’uso potrà essere viseificato: dirò che una casa, un utensile, un oggetto o un vestito mi guardano non perché assomigliano a un viso, ma perché sono presi nel processo muro bianco-buco nero e si connettono con la macchina astratta di viseificazione.[36]

 

In questo senso sfuggire all’organizzazione di questa “macchina astratta” significa spezzare l’organizzazione di questa viseificazione, liberare i tratti di viseità, in favore di una libera riconfigurazione degli elementi (che non sono solo quelli della “testa”, ma delle cose in generale) in fuga dalla codificazione che la macchina astratta produce e installa, tant’è che “Il viso ha un grande futuro, a condizione d’essere distrutto, disfatto. In cammino verso l’a-significante, verso l’a-soggettivo”[37]. La voltificazione è quindi un processo che, se disfatto, conduce verso l’a-significante, proprio perché il regime “significativo” si origina proprio in questo processo. Disfare questo processo significa disfare la soggettività strutturata, e creare uno spazio “intensivo”, “affettivo”, fatto di singolarità che entrano in connessione:

 

Si apre così un possibile rizomatico, che opera una potenzializzazione del possibile, contro il possibile arborescente che segnava una chiusura, un’impotenza.[38]

 

Il volto, in ogni caso, sia in regime di voltificazione, sia di volteità, non deve mai essere considerato come “oggetto parziale”, esso , nella sua funzione  affettiva, non deve mai essere ricollegato alla continuità del film, come fosse parte integrante, o frammento, della diegesi filmica; piuttosto, il volto in quanto espressione  dell’affetto è un’astrazione pura, è slegato da ogni coordinata spaziotemporale:

 

il primo piano è sempre stato considerato come “immagine di altra natura”[…]Esso “pesta i piedi” allo spettatore, secondo l’efficace formula di Ejzenstejn. Ciò non significa soltanto che il primo piano costituisce soltanto un’immagine che incombe sullo spettatore, ma che la visione è interamente occupata da qualcosa che interrompe lo sguardo.[…]Con il primo piano la visione si trova ipnoticamente agganciata a qualcosa che non può essere né messo a distanza (in prospettiva) né percorso con lo sguardo, tanto che si può dire che è lo spettatore ad essere non solo assorbito dal volto ma a sua volta guardato [39] .

 

Come scrive Jean Epstien (1897-1953) “appena vediamo in primo piano il volto di un vigliacco  mentre sta scappando, vediamo la vigliaccheria in persona , il sentimento-cosa”[40] . L’affetto dunque, anche se sempre  espresso da uno stato di cose determinato (il vigliacco che scappa) non si confonde mai con esso, ma piuttosto astrae dallo stato di cose la qualità che esso  esprime, elevandola al livello di pura potenzialità (il sentimento-cosa).

Il luogo e lo spazio dunque, in seno all’immagine-affezione, perdono ogni coordinata, fino a diventare spazi e luoghi “qualsiasi”, questo perchè il primo  piano ha in se una forza d’astrazione che strappa l’immagine alle proprie coordinate spazio-temporali, per far sorgere l’affetto puro.In questo senso allora  ogni cosa, ogni oggetto, ogni parte di corpo, può giungere ad esprimere la qualità dell’affetto: “il lato “tagliente” del coltello di Jack lo Squartatore,  non è un affetto minore della paura che travolge i suoi tratti”[41].

L’affetto dunque non si rapporta propriamente alla categoria del Reale, quanto più a quella del possibile: esso non da conto di un’azione che è in prossimità  di svolgimento, tant’è che è estraneo allo stato di cose preso in considerazione; si fa invece portatore di una qualità che è pura in quanto semplicemente  “possibile” indipendentemente da una sua eventuale effettuazione, una “virtualità” che è indipendente da ogni sua “attualizzazione”.

In questo senso è utile ricorrere ad un esempio “linguistico” tratto da Charles Sanders Pierce (1839-1914) che viene citato dallo stesso Deleuze: per il semiologo americano  l’affetto, la qualità è, ad esempio, un “rosso” che è tanto presente nella proposizione “questo non è rosso” quanto nella proposizione “è rosso”[42].

Questa viene identificata da Pierce come la categoria della “primità”, che è in contrapposizione alla “secondità” che invece esprime un qualcosa di  attualizzato, qualcosa che da luogo ad un’azione. La “primità” è invece “la categoria del Possibile:[…]esprime il possibile senza attualizzarlo pur  facendone un modo completo[…]è la qualità considerata in se stessa in quanto espressa. Il segno corrispondente è dunque l’espressione, e non  l’attualizzazione”[43].

Gli affetti, dunque, non si confondono con i personaggi o con gli stati di cose che li attualizzano, ma essi non vanno nemmeno scambiati per un vuoto  indifferenziato, essi sono animati da delle singolarità che entrano in congiunzione reciproca, che producono dei complessi espressivi: essi sono delle pure qualità che non hanno bisogno di una effettiva attualizzazione in quanto la categoria che li informa è quella dell’espressione, non intrattengono rapporti con i soggetti, sono pre-soggettivi, scorrono sotto il soggetto ad un livello preindividuale, sono pure singolarità che valgono di per se stesse.

Ogni volto avrà le sue parti dure e le sue parti tenere, i suoi spigoli e le sue linee morbide, le sue zone oscure e le sue zone luminose: per Deleuze, possiamo dire che  vi è un vero e proprio montaggio interno al volto, e di conseguenza, un vero e proprio montaggio interno al primo piano, infatti: “un piccolissimo  cambiamento di direzione del volto fa variare il rapporto delle sue parti dure e delle sue parti tenere, e per questo modifica l’affetto” [44].

Ma il fatto che l’affetto trovi la sua più naturale collocazione ed espressione in seno al volto umano non significa che esso sia l’unico spazio all’interno  del quale possiamo ritrovarne il segno.

In tal senso è utile riproporre il proficuo confronto che Deleuze svolge tra La Passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer (1889-1968), regista danese che lavorò anche con Antonin Artaud, e Il processo di Giovanna d’Arco di  Robert Bresson (1907-1999), regista francese che poi diventerà punto di riferimento assoluto dei registi della “nouvelle vague”.

Entrambe le opere ruotano naturalmente attorno alla storia dell’eroina di Orleans, concentrandosi in particolar modo sul processo del quale questa fu fatta oggetto, proponendo però due estetiche dell’affezione che, nella prospettiva deleluziana, sono nettamente in contrapposizione.

Nel film di Dreyer, la potenza dell’immagine-affezione è sviluppata tutta mediante la messa in primo-piano dei volti, addirittura rinunciando al campo-controcampo, staccando e isolando tutti i volti da ogni tipo di coordinata spaziale, sviluppando una sorta di prospettiva spirituale, che , annullando la  terza dimensione, mette lo spazio in diretta connessione con lo spirito.

 

[45]

 

 

 

Il montaggio è caratterizzato da un susseguirsi di falsi raccordi, “come se  bisognasse spezzare delle connessioni troppo reali o troppo logiche”[46], tutto nel tentativo di farci percepire la “Passione”, l’affetto di per se  stesso, staccato dal “processo” che effettivamente si svolge: come “fossero due presenti che non cessano d’incrociarsi”[47].

Ne Il processo di Giovanna d’Arco di Bresson invece, vediamo all’opera un meccanismo diverso, che opera un superamento di quello precedentemente identificato. Il film non è  più costruito su un susseguirsi di primi piani, prevalgono anzi i piani medi, e non mancano i classici campi-controcampi. Ma nonostante questo, possiamo  comunque identificare “Il Processo di Giovanna d’Arco” come un film “affettivo”. Questo perché lo sviluppo della passione, dell’affetto, seguono, in Bresson,  una direzione diversa: la costruzione dello spazio (praticamente assente in Dreyer) si svolge adesso pezzo per pezzo, attraverso un processo che rende  impossibile la sistemazione completa di tutti gli elementi all’interno di esso, tutto è frammentato e frammentario:

 

Lo stesso spazio è uscito fuori dalle proprie coordinate come dai propri rapporti metrici.[…]Con ciò Bresson perviene ad un risultato che era solamente  indiretto in Dreyer:L’affetto spirituale non è più espresso da un volto, e lo spazio non ha più bisogno di essere assoggettato ad un primo piano.L’affetto è  adesso presentato direttamente, in un piano medio, in uno spazio capace di corrispondergli [48].

[49]

 

Lo spazio diventa quindi una sorta di luogo in seno al quale si dispiega una potenzialità; perde la sua determinazione in favore di una frammentarietà che lo  rende “spazio qualsiasi”: esso non è “qualsiasi” in quanto universale o astratto, anzi, pur conservando perfettamente la sua singolarità, ha perduto la sua  “omogeneità”, ossia il principio che teneva congiunte e connesse le sue varie parti, cosicché i raccordi possano adesso prodursi in infiniti modi.

 

Lo spazio qualsiasi presenta direttamente l’affetto in quanto entità complessa, composta di diverse singolarità, e ne costituisce il segno genetico. Lo spazio qualsiasi è il mondo delle congiunzioni virtuali fra qualità e potenze non attualizzate. Un mondo espresso e non-agito. Lo spazio qualsiasi è effetto del processo di “disidentificazione” dello spazio ad opera della sua frammentazione (Bresson), del suo svuotamento (Antonioni) e del colore (il musical)[50].

 

Si vede come il concetto di “spazio qualsiasi” si riconnette in qualche modo a quello fatto sui volti, chiarendo in maniera definitiva il discorso deleuziano sulla “viseità“ come “macchina astratta“ che lavora indipendentemente dai “volti“ in quanto tali: il volto disfatto, spezzato in “tratti di volteità”, ha la capacità , così come lo spazio qualsiasi, di riconcatenare le sue varie parti in modi sempre diversi. Lo spazio allora diventa luogo all’interno del quale non si dispiegherà più un movimento logico e razionale, ma piuttosto “aberrante” e “falso”, entrando, come si vedrà più avanti, in diretta connessione con la dimensione del Tempo.

 

 

 L’Immagine-pulsione

 

Per Deleuze, tra l’affezione che si esprime attraverso la tendenza motrice di un nervo sensibile, e l’azione  che viene perpetrata da un corpo in uno spazio determinato, troviamo un altro tipo di immagine: l’immagine-pulsione.

La differenza che separa la pulsione dall’affezione e dall’azione non è però una differenza di grado: è bensì differenza di natura. Se l’affezione consisteva di un’espressione, di una qualità espressa da una parte del corpo che aveva perso parte della sua motricità, la pulsione ha molto più a che vedere con un’impressione: essa non è “espressa” da un corpo, ma è piuttosto impressa in esso

Se l’immagine affezione si sviluppava (come evidenziato nel paragone tra Dreyer e Bresson) intorno al binomio “spazi qualsiasi-affetti”, l’immagine pulsione si originerà in base al rapporto che si stabilisce tra “mondi originari” e “pulsioni elementari”.

Quello che Deleuze definisce il mondo originario differisce dallo “spazio qualsiasi” dell’immagine azione, benché gli rassomigli molto. Esso  appare solamente in fondo agli ambienti determinati, ma è come se ne costituisse il fondamento,  e lo si riconosce dal suo carattere informe:

 

è puro sfondo, o piuttosto un senza fondo fatto di materie non formate, pezzi o abbozzi, attraversato da funzioni non-formali, atti o dinamismi energici che non rinviano nemmeno a soggetti costituiti [51].

 

La pulsione sarà propriamente quell’energia che si impossessa dei pezzi dell’ambiente originario, per diventare perversione nel mondo derivato: il mondo originario e il mondo derivato (o “reale”) sono perciò in strettissima connessione, esistono l’uno in funzione dell’altro. E’ come se in fondo ad ogni ambiente “reale” ci fosse un mondo originario che brontola e sbuffa, il cui soffio pervade il mondo derivato, inquinandolo di quelle pulsioni che ha generato, di cui i suoi pezzi, i suoi feticci, si fanno portatori.

Secondo Deleuze, questo schema dell’immagine-pulsione è sostanzialmente il meccanismo che opera all’interno del romanzo naturalista: far sentire, nel fondo degli ambienti reali che ospitano gli eventi della narrazione, uno sfondo dal quale questi eventi promanano, un mondo originario fatto di pulsioni che si impossessano dei personaggi del mondo reale, conducendoli al disfacimento.

E’ proprio questo naturalismo, che in letteratura è rappresentato essenzialmente da Emile Zola (1840-1902), che Deleuze considera tratto distintivo dell’opera di Luois Bunuel (1900-1983) e Erich von Stroheim (1885-1957): entrambi,  anche se in maniera differente,l’uno attraverso la creazione di un eterno ritorno senza fine, l’altro attraverso il promanarsi di una costante degradazione che conduce l’ambiente ad una totale entropia, pervengono alla costruzione di immagini-pulsione, riuscendo nel tentativo di associare ad ogni ambiente descritto un mondo originario animato da pulsioni che si diffondono nell’ambiente, si attaccano agli oggetti rendendoli dei feticci, e infine conducono alla dissoluzione l’ambiente “infettato”:

 

Un primo aspetto concerne la natura delle pulsioni. Poiché, se esse sono “elementari oppure “brute”, nel senso in cui rinviano sempre a mondi originari,possono assumere figure molto complesse.[…]Certo, sono spesso relativamente semplici, come la pulsione di fame, le pulsioni sessuali[…]ma sono già inseparabili dai comportamenti perversi che producono.Un secondo aspetto riguarda l’oggetto della pulsione, cioè il pezzo, che appartiene contemporaneamente al mondo originario ed è strappato all’oggetto reale dell’ambiente derivato.L’oggetto della pulsione è sempre l’”oggetto parziale”[…]In terzo luogo,la legge o il destino della pulsione è d’impadronirsi con scaltrezza, ma violentemente , di tutto quanto può in un ambiente dato.[..]La pulsione è atto che lacera, dilania, disarticola.La perversione non è dunque sua deviazione, ma la sua derivazione, cioè la sua espressione normale nell’ambito derivato [52].  

 

Si vede dunque come la pulsione rappresenti il limite estremo tra azione subita e azione “agita”: essa costituisce il dispiegarsi nell’ambiente “derivato” (o anche “reale”) di una tendenza che era già presente nell’ambiente definito “originario”. La pulsione pertanto ha sì come suo correlato un’azione effettivamente svolta, ma questo “svolgersi” non è nient’altro che il dispiegarsi della pulsione stessa in seno al mondo derivato. E’ per questo che non è possibile stabilire un’identità tra immagine-pulsione ed immagine-azione: le azioni che hanno luogo in seno al regime dell’immagine-pulsione sono letteralmente “agite” , attraverso i personaggi, dalla pulsione stessa, che è costitutiva del mondo “originario”, diversamente da quanto vedremo accadere nel regime dell’immagine-azione.

 

L’immagine azione

 

“Quando l’universo delle immagini movimento è rapportato a una di queste immagini particolari che forma in esso un centro, l’universo si incurva e si organizza circondandolo. Si continua ad andare dal mondo al centro, ma il mondo ha assunto una curvatura,è diventato periferia, forma un orizzonte. Si è ancora nell’immagine-percezione, ma si è anche già nell’immagine-azione. La percezione, infatti, non è che un lato dello scarto, di cui l’azione è l’altro lato. Ciò che si chiama azione , a dire il vero, è la reazione ritardata del centro d’indeterminazione” [53].

  

All’interno del regime dell’immagine-azione non incontreremo più “spazi qualsiasi” e “mondi originari”: qualità, potenze e pulsioni le ritroveremo sempre incarnate in situazioni ed ambienti determinati, poiché l’azione non appartiene all’ambito del “possibile” (come l’affezione) ma a quello del reale e dell’attuale.E’ ciò che Deleuze chiama per l’appunto “realismo”: esso non escluderà immagini di sogno o più genericamente di finzione, ma avrà come suo tratto distintivo l’esser sempre determinato, sia sotto il profilo ambientale che sotto quello comportamentale.

L’immagine-azione si attuerà secondo due diverse tipologie, o poli: la “grande forma”, che conduce da una situazione di partenza ad una di arrivo mediante l’azione del protagonista; la “piccola forma” che procede da un’azione che svela una situazione, fino all’azione susseguente.

 

a)La grande forma

Il primo e più importante elemento costitutivo del regime della “grande forma” è quello che Deleuze, sulla scia di Pierce, ci presenta come “sinsegno”: esso costituisce il cosiddetto “inglobante”, ossia l’ambiente determinato in seno al quale le qualità e le potenze si trasformano in “forze” che agiscono sui personaggi.

Sarà per l’appunto all’interno di questo inglobante, “in cui si distinguono già le qualità-potenze e lo stato di cose che si attualizza” [54], che il personaggio acquisirà un nuovo modo di essere, “habitus”, che lo porterà a rispondere in maniera attiva alle esigenze che la situazione pone, modificando i tratti, inventandola daccapo.

Se da un lato abbiamo dunque l’inglobante, l’ambiente che con le sue caratteristiche forza il personaggio ad agire su di esso; dall’altro abbiamo il personaggio stesso e l’azione da lui compiuta: ciò che ,attraverso Pierce, chiamiamo “binomio” [55]. Esso è così definito perché è sempre riferito ad una dualità, ad un “duale” [56]: sarà sempre un’azione che si svolge “fra due”, sarà sempre la tensione che si genera ed esplode tra una forza particolare ed un’altra ad essa antagonista.

Questo schema , che va da una situazione di partenza (S) ad una situazione di arrivo (S’) mediante un’azione prodotta dal protagonista (A) costituisce lo schema (SAS’) che Deleuze considera predominante all’interno di tutta la produzione hollywoodiana.

Esso, naturalmente, si attualizza in maniera diversa rispetto al genere cinematografico all’interno del quale è preso, e, conseguentemente, produce significati e prospettive diverse.

Nell’ambito del documentario (Deleuze analizza il caso di Robert J. Flaherty) e in particolar modo nel documentario “sociale”, lo svilupparsi della grande forma imporrà una visione della civilizzazione che necessariamente si produce come una risposta alle sfide poste dall’ambiente (SAS‘), restituendo un’idea che interpreta le diseguaglianze sociali (ricchi-poveri) come indipendenti da ogni causa: esse non sarebbero il risultato di un’azione precisa, ma semplicemente la conseguenza delle sfide poste dall’ambiente, il semplice “svolgimento” di un qualcosa che era già contenuto nella situazione di partenza.

Abbiamo detto che questo schema è all’opera in numerosi generi cinematografici: nel cosiddetto film “psico-sociale” a là King Vidor (1894-1982), l’inglobante, il sinsegno, sarà costituito dalla collettività, “nazione-ambiente crogiolo di tutte le minoranze” [57], dall’interno della quale dovrà venir fuori il personaggio-capo che “sappia rispondere alle sfide dell’ambiente come alle difficoltà di una situazione” [58].Rimane però la possibilità, come in Folla dello stesso King Vidor, che la collettività possa rivelarsi falsa e inospitale, e l’individuo abbandonato a se stesso: allora allo schema SAS’ si sostituisce lo schema SAS, dove, nonostante l’azione del protagonista, la situazione rimane drammaticamente e incontrovertibilmente identica a se stessa.

 

[59]

 

Allo stesso modo ritroviamo questa “grande forma” nel film di gangster, e nel suo modello più celebre: Scarface di Howard Hanks (1896-1977). Nel “gangster movie” la situazione di partenza, “l’inglobante”, sarà sempre, come in Folla, precario e instabile: un “falsa comunità”; allo stesso modo i comportamenti dei protagonisti non costituiranno più delle vere e proprie risposte alle sfide che l’ambiente pone, ma testimonieranno di una esasperata “volontà di potenza” che li condurrà , inevitabilmente, alla degradazione e alla morte.

E’ così che Deleuze legge la storia di Scarface: “tutte le incrinature dell’eroe, tutte le piccole fratture con le quali finiva con lo strafare, si riuniscono in una crisi abbietta che lo trascina con la morte della sorella” [60].

 

[61]

 

Il discorso riferito alla grande forma trova forse la sua applicazione più classica e grandiosa all’interno del film western.

Da Thomas H. Ince (1882-1924) fino a John Ford (1894-1973), la narrazione, all’interno del western, si svolge sempre a partire da un ambiente “inglobante” che è praticamente sconfinato, all’interno del quale i protagonisti agiranno, ristabilendone l’ordine e la ciclicità.

L’ambiente però, diversamente da quanto visto in precedenza, non è più semplicemente una “situazione” che in seguito ad un’azione verrà a modificarsi, esso costituisce piuttosto un gigantesco universo che comprende tutto:

 

Alcuni ne hanno concluso che si tratta di uno spazio chiuso, senza movimento né tempo reali. Ci sembra piuttosto che il movimento sia reale, ma invece di farsi da parte a parte, ovvero in rapporto ad un tutto di cui tradurrebbe un cambiamento, si fa “in” un inglobante, di cui esprime il respiro[…]si può andare da un punto conosciuto a un punto sconosciuto, l’essenziale resta l’inglobante che li comprende entrambi, che si dilata mentre si avanza a gran fatica e si contrae quando ci si ferma e ci si riposa[62]

 

Si vede dunque, come indipendentemente dal genere, il cinema hollywoodiano si sia fatto promulgatore di una visione del mondo che non può prescindere dai dati contenuti, in nuce, dalla situazione di partenza: è il principio della “necessità” a ordinare lo sviluppo degli eventi, principio che non lascia spazio né all’impensato né ad uno sviluppo dialettico: “negli americani, la rappresentazione organica è essa stessa, da sola, la storia intera, linea germinale da cui ogni nazione-civilizzazione si stacca come un organismo, ognuna prefigurando l’America” [63].

 

b)La piccola forma

 

Se all’interno del regime della “grande forma” il principale elemento costitutivo era rappresentato dall’ambiente inglobante (“sinsegno”) il “segno” principale della “piccola forma” è costituito dall’indizio . Sarà infatti attraverso l’indizio che la situazione in cui personaggi sono presi verrà man mano a svelarsi. Se ne individuano due diverse tipologie: in un primo caso avremo quella che Deleuze definisce “immagine-ragionamento” [64] costituita da una semplice azione ,o immagine, che svela una situazione ancora non data, una sorta di “indizio di mancanza”, come ad esempio in La donna di Parigi di Charlie Chaplin (1889-1977), dove l‘immagine del treno che arriva si vede solo attraverso le luci che brillano sul volto della donna; in un altro caso, più complessa e interessante,l’indizio sarà costituito da tutta una serie di dettagli che il film ci fornisce,i cosiddetti “indizi di equivocità”, che aprono costantemente al dubbio e all’equivoco: “è proprio come se un’azione, un comportamento, celasse una piccola differenza, che basta tuttavia a rinviarli simultaneamente a due situazioni completamente diverse” [65].

 

[66]

 

L’indizio , in sostanza, più che fungere da elemento chiarificatore, opera una messa in dubbio della situazione, nel momento stesso in cui la svela. Ciò che avviene è che una “piccolissima differenza nell’azione o tra due azioni induce una grandissima differenza fra due situazioni”[67]. In questo senso possiamo ben dire che la piccola forma si configura come un’ellisse, me nel secondo senso della parola: le due situazioni che si vengono a creare sono infatti distanti come i due fuochi della figura geometrica. L’indizio di equivocità è perciò “un indizio di distanza, non più di mancanza”[68], come invece si era visto precedentemente.

In ambedue i casi comunque è sempre un’azione, che funge da indizio, a svelare poco a poco la situazione nella quale i personaggi sono presi, lo schema dunque non è più  SAS’, ma bensì ASA’.

E’ chiaro che questo tipo di impostazione restituisce una visione delle cose che differisce in maniera importante da quella della “grande forma”. Se prima, ad esempio, si era visto come il “documentario” offrisse una visione della civilizzazione  che interpretava tutti i processi sociali come derivanti da un’immutabile situazione di partenza, adesso sarà l’azione ha determinare lo svolgimento dei rapporti sociali, interpretando le discrepanze sociali come causate da azioni che effettivamente e volontariamente compiute, e non più mere “reazioni” alle sfide poste da un ambiente determinato.

Allo stesso modo il film poliziesco si differenzierà dal gangster movie: se in questo  tutto si sviluppava a partire da un ambiente che conteneva in se i presupposti della degradazione finale (SAS‘), nel poliziesco sarà sempre un’azione cieca ed ingiustificata (indizio) a svelare il campo della situazione oscura e misteriosa, fino alla risoluzione finale (ASA’); è la formula del romanziere Hammett riportata da Deleuze:  “lasciare una chiave inglese nella macchina” , “è il gesto alla cieca che farà esplodere la situazione assolutamente oscura”[69].

Ma il genere che più di ogni altro sembra votarsi esclusivamente alla piccola forma è il burlesque, e in particolar modo nei capolavori di Chaplin. E’ nell’opera del geniale regista di Tempi moderni che ritroveremo infatti, espresso nella sua massima potenza,

la formula della “piccolissima differenza tra due azioni, che farà valere una distanza infinita tra due situazioni […]: visto di spalle, Charlot abbandonato da sua moglie sembra scosso dai singhiozzi, e invece, non appena si gira, si vede che sta scuotendo uno shaker e si prepara un cocktail”[70]. L’azione viene filmata dall’angolo della sua più piccola differenza con un’altra opposta (piangere-shakerare) per poi svelare la più grande delle differenze tra le situazioni. E’ questo il segno del cinema di Chaplin, ed è questo il senso dell’indizio e di tutto il procedere della piccola forma: dalla più piccola e impercettibile differenza tra due azioni può derivare la più enorme delle differenze in seno alla situazione. Come scrive Deleuze in riferimento al Grande Dittatore:

 

“non si tratta più soltanto di due situazioni opposte[..] si tratta di due stati della società, di due Società opponibili, di cui una fa della piccola differenza fra gli uomini lo strumento di una distanza infinita di situazioni (tirannia), e l’altra farebbe della piccola differenza fra gli uomini la variabile di una grande situazione comune e comunitaria (democrazia)” [71]

 

 

La crisi dell’immagine-azione

 

Se immagine-affezione e immagine-azione erano l’una espressione di una “primità” (il volto) e l’altra di una “secondità” (il binomio o “duale”) allora la cosiddetta “immagine-mentale” sarà l’espressione di una “terzità”: essa null’altro è se non l’interpretazione che si dà di un’azione, il senso simbolico e intellettuale (e non già passionale) che si produce in seguito ad un evento, un fatto; pura “relazione” che si instaura tra due immagini. Sempre estranea ai suoi termini, la relazione ne sancisce il rapporto e il senso dell’uno rispetto all’altro, ed essa, se pure era già , in un certo senso, contenuta nell’immagine-azione, non ne costituiva il motore: diversamente adesso si trova ad occupare un ruolo che diventa centrale e determinante.

Sarà con Alfred Hitchcock (1899-1980) che il grande cinema conoscerà quest’inversione: se nel regime dell’immagine-azione il nodo centrale era costituito dalla modalità attraverso la quale gli eventi si concatenavano fra di loro, nel cinema del regista londinese il cosiddetto “whodunit” , il “chi l’ha fatto?”, perderà di ogni importanza, in favore della rete di relazioni entro la quale un’azione o un evento si inserisce. Saranno le relazioni a determinare il senso di ogni azione, e sarà la loro capacità di variare a determinare un mutamento in seno al significato. Si vede qui come si determini una profonda spaccatura tra queste diverse concezioni del cinema e della storia: se nel cinema hollywoodiano dell’immagine-azione gli eventi si concatenano fra di loro in maniera stabile e fissa, senza lasciare nessuno spazio ad una riconfigurazione del  senso che, resta bloccato e incatenato alla linea narrativa nella quale gli stessi eventi sono inseriti, in Hitchcock e in tutto un certo cinema che verrà, il rapporto tra le azioni, le situazioni e la loro interpretazione muta in seguito al mutare delle relazioni in seno alle quali sono presi. Essi sono dunque aperti ad una riconfigurazione e reinterpretazione costante che ne garantisce l’apertura del senso, che non diviene mai definitivamente “senso unico”, ma è sempre suscettibile di cambiamento.

L’immagine allora non rinvierà più ad una situazione globale e comprensiva, ma avrà come suo segno la dispersività; e allo stesso modo le linee che prolungavano gli avvenimenti gli uni negli altri e assicuravano il raccordo delle porzioni di spazio si spezzano, in favore di uno s-concatenamento: l’azione verrà sostituita della passeggiata , dall’andare a zonzo, dal mero aggirarsi tra le macerie di un mondo spezzato e irragionevole.

Saranno questi i tratti che, preannunciati dal cinema di Hitchcock, caratterizzeranno, nella prospettiva di Deleuze, il cinema neorealista italiano prima, e la nouvelle vague francese poi; causando quello scarto che, dalla caduta dell’immagine-azione, porterà alla nascita di un nuovo tipo di immagine e di cinema, che prescindendo dal movimento, cercherà di portare sullo schermo l’essenza stessa del tempo.

 

Un tale passaggio si manifesta in una crisi dell’immagine-movimento, e in particolare della sua varietà più rappresentativa, l’immagine-azione, e in una lievitazione dell’immagine-tempo, soprattutto nel suo momento emblematico, l’immagine-cristallo. Ciò significa che il cinema recente mira, più che a attualizzare il reale, a darcelo nella sua apertura al possibile, nella sua tensione alla totalità; e parallelamente che la modernità si caratterizza, oltre che per un gioco di ripetizioni, di eccessi e di parodie, anche per un aumento progressivo della densità, per una conquista della pienezza. Se c’è un divenire del cinema[…]esso punta al cuore della vita.[72]

[1] G. Deleuze, L’Immagine-movimento, Ubulibri, 2002, Milano

[2] G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, Ubulibri, 2002, Milano

[3] Ivi, pag. 308

[4] H. Bergson, Materia e memoria, Laterza, 2006, Bari

[5] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina Editore, 2002, Milano

[6] G. Deleuze, L’Immagine-movimento,, pag. 14

[7] Ivi, pag. 16

[8] Ivi, pag. 16

[9] H. Bergson, Materia e memoria, Laterza, 2006, Bari

[10] G. Deleuze, L’Immagine-movimento, pag. 22

[11] Ivi, pag. 76

[12] Ivi, pag. 77

[13] M. Grande, Il cinema in profondità di campo, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni, 2003, Roma, pp. 396-97

[14] G. Deleuze, L’Immagine-movimento, pag. 79

[15] M. Grande, Il cinema in profondità di campo, pag. 400

[16] Ivi, pag. 401

[17] G. Deleuze, L’Immagine-movimento,  pag. 91

[18] Ivi, pag.92

[19] P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 1972, Milano

[20] Ivi, pag.93

[21] Ivi, pag.93

[22] P.P. Pasolini, Empirismo eretico

[23] G. Deleuze, L’Immagine-movimento, pag.94

[24] M. Pezzella, Estetica del cinema, il Mulino, 2003, Bologna, pag.74

[25] G. Deleuze, L’Immagine-movimento, pag. 97

[26] D. Vertov, L’uomo con la macchina da presa, URSS, 1929

[27] Ivi, pag.102

[28] Ivi, pag.85

[29] Ivi, pag.85

[30] Ivi, pag.109

[31] Ivi, pag.109

[32] Ivi, pag.110

[33] Ivi, pag.111

[34] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, 2006, Roma

[35] G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, 2002, Torino

[36] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Capitalismo e schizofrenia, pag. 270

[37] Ivi, pag. 265

[38] Ivi, pag. 289

[39] M. Grande, Il cinema in profondità di campo, pp. 386-87

[40] J. Epstein, Escrits, 1, Seghers, pp.146-7, cit. in G.Deleuze, L’immagine-movimento, pag.118

[41] G. Deleuze, L’immagine-movimento, pag.119

[42] Ivi, pag.120

[43] Ivi, pag.121

[44] Ivi, pp.127-28

[45] Carl Theodor Dreyer, La passione di Giovanna D’Arco, 1928, Francia

[46] Ivi, pag.130

[47] Ivi, pag.129

[48] Ivi, pag.132

[49] R. Bresson, Il processo di Giovanna D’Arco, Francia, 1962

[50] R. De Gaetano, Il visibile cinematografico, Bulzoni, 2002, Roma, pag. 147

[51] G. Deleuze, L’immagine-movimento, pag.148

[52] Ivi, pp. 153-54

[53] Ivi, pag.85

[54] Ivi, pag.168

[55] Ivi, pag.168

[56] Ivi, pag.168

[57] Ivi, pag.171

[58] Ivi, pag.171

[59] K. Vidor, La folla, USA, 1928

[60] Ivi, pag.171

[61] H. Hawks, Scarface, USA, 1932

[62] Ivi, pag.172

[63] Ivi, pag.175

[64] Ivi, pag.188

[65] Ivi, pag.189

[66] C. Chaplin, La donna di Parigi, USA, 1923

[67] Ivi, pag.189

[68] Ivi, pag.189

[69] Ivi, pag.191

[70] Ivi, pag.196

[71] Ivi, pag.199

[72] F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Bompiani, 1994, Milano.


Antonio Ricciardi
Torre del Greco
1984/05/09
Professionista SEO
Università degli Studi di Napoli L’Orientale

Author: Antonio Ricciardi

Antonio Ricciardi è un ricercatore indipendente laureato in Linguaggi Multimediali e Informatica Umanistica presso L’Orientale di Napoli. L’oggetto della sua ricerca è focalizzato sui temi del ritmo e della temporalità sviluppati nel quadro della filosofia novecentesca, con particolare riferimento al pensiero di G. Deleuze e A. N. Whitehead. Suoi scritti sono apparsi su Kaiak. A Philosophical Journey, Menelique, NOT

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